(BadBit) Errare è umano, perseverare è da Iena.

Dopo la serie di servizi sul metodo Stamina, Le Iene ci riprovano con la cura vegan per i tumori, intervistando alcuni pazienti, che sarebbero guariti grazie a una dieta a base di frutta, verdura e concentrato d’aloe. Se da un programma di intrattenimento non si può certo pretendere che faccia divulgazione scientifica, stupisce notare come vengano affrontati temi delicati con imbarazzante incompetenza e come non ci sia il minimo pudore nel dare false speranze a malati gravi.

Vergognatevi.

Il noto programma di Italia 1 Le Iene persevera nella realizzazione di servizi riguardanti cure miracolose, che sarebbero taciute e osteggiate dalla scienza “convenzionale”. Dopo la serie di puntate dedicate al metodo Stamina dello psicologo Davide Vannoni, ora è la volta di tumori incredibilmente regrediti grazie a una dieta vegana, con l’aggiunta di concentrato di aloe. Si badi bene che il problema qui non sta nel dare spazio a terapie non riconosciute dalla medicina “convenzionale” o dalla mitologica Big Pharma, quanto piuttosto nel parlarne senza alcuna dimestichezza col lessico e con nozioni di base in campo medico, senza nessuna conoscenza del metodo scientifico e senza il minimo pudore nel gridare alla guarigione, seguendo una linea priva di qualsiasi razionalità logica. Ma andiamo con ordine.

Il leitmotiv di fondo è che, nella cura del cancro, l’alimentazione sia di fondamentale importanza: a questo proposito, vengono inserite le dichiarazioni del Prof. Veronesi, che definisce il cibo una vera e propria medicina. Ovviamente, che un’alimentazione sana e equilibrata aiuti a prevenire numerose patologie è un principio condiviso dalla totalità della comunità scientifica e lo si ripete ovunque che bisogna seguire una dieta ricca di frutta e verdura. Solo che Le Iene ci mettono un attimo a confondere il concetto di prevenzione con quello di cura, per cui dal principio di cui sopra derivano, con stucchevole noncuranza, che frutta e verdura guariscano dai tumori. Per avvalorare questa tesi, intervistano alcuni pazienti, che spiegano come, eliminando latticini, carni rosse, farina, zucchero, carboidrati dalla loro dieta, le masse cancerogene, che erano state loro diagnosticate, si siano inaspettatamente ridotte.

Dice Gianni: “I medici mi avevano proposto la chemioterapia, ma io mi sono informato e scopro delle terapie alternative. Quella che più mi piaceva è basata esclusivamente su cibi vegetali […] Non mangio carne, latte e derivati dal latte, farina bianca, zuccheri […] per depurare il fisico, più tossine tu butti fuori, più rinforzi il sistema immunitario”.

Vengono quindi riportate le esperienze di singoli individui senza specificare che tre casi, a fronte di migliaia e migliaia di altri, non hanno un peso statistico, ma soprattutto, cosa ancora più grave, nel momento in cui i pazienti specificano che il tumore, dopo essere regredito, si è ripresentato, la colpa viene data all’aver sgarrato dalla dieta, come se realmente fosse quello il motivo. Inoltre, manca del tutto qualsiasi contraddittorio: tutti i pareri dei medici sono ritagliati ad hoc, decontestualizzati e inseriti in un puzzle schizofrenico, in cui non c’è un solo concetto adeguatamente spiegato. Il discorso viene a perdere qualsiasi spessore e qualsiasi significato e sembra che le dichiarazioni di due o tre medici possano valere tanto quanto la posizione di un’intera comunità scientifica. Non solo: ad avvalorare la tesi, viene proposto uno spezzone tratto dal Maurizio Costanzo Show, in cui tale Padre Romano Zago asserisce di poter guarire il cancro somministrando una bevanda a base di aloe. la Iena Viviani pone l’accento sul fatto che Padre Zago abbia fatto una simile dichiarazione “davanti a milioni di italiani”, come se questo dovesse essere sufficiente a dimostrare la veridicità di quanto detto. Ma la cosa più assurda è che non viene fatta distinzione alcuna tra l’associare una dieta sana e un corretto stile di vita a chemioterapia o radioterapia (raccomandazione che qualunque medico dotato di buon senso farebbe) e il rifiutare chemioterapia e radioterapia preferendo invece succhi di frutta e insalata.

La redazione de Le Iene dovrebbe almeno prendere coscienza della responsabilità derivante dalla realizzazione e messa in onda di servizi del genere e di quanto sia poco professionale diffondere informazioni inadeguate e incomplete, su tematiche così delicate. Dovrebbero vergognarsi per l’imbarazzante cattiva informazione che forniscono senza averne le competenze. E dovrebbero infine segnalare che i contenuti trasmessi non possono e non devono essere considerati sostitutivi di un parere medico e che sono privi di qualsiasi fondamento scientifico.

(QuGreen) Fai come Gwyneth: un po’ di pompelmo e via la depressione

In un articolo su Natural Style, Diana De Marsanich ci racconta di come Gwyneth Paltrow abbia sconfitto la depressione mangiando sano. Partendo dal buon principio che un’alimentazione equilibrata aiuta a prevenire malattie anche gravi, la giornalista finisce col promuovere un’accozzaglia di suggerimenti pseudo-scientifici.


Gwyneth Paltrow era malata di depressione. Ed è guarita mangiando sano. O meglio: mangiando ancor più sano di quanto non facesse già, dal momento che l’attrice 40enne evitava le carni rosse da 20 anni e seguiva una dieta macrobiotica, fondata sugli elementi dello Ying e dello Yang. Ma ad un certo punto, un malessere improvviso – un forte mal di testa, accompagnato dalla perdita di sensibilità alla mano destra – le ha fatto capire che era giunta l’ora di cambiare, così, sotto consiglio del suo medico, la nostra Gwyneth si è data alla dieta dell’eliminazione per 21 giorni. Ha purificato il corpo eliminando completamente qualsiasi cibo lavorato industrialmente e potenzialmente infiammatorio: quindi niente caffè, niente formaggio, né zucchero, patate, peperoncini, melanzane, mais, frumento, carne, glutine, e anche soia e frutti di mare. Stando a quanto riportato dalla De Marsanich, disintossicantosi la Paltrow ha risolto i vari problemi che gli esami clinici avevano messo in luce: squilibri ormonali, carenza di vitamina D, anemia e tumore benigno alle ovaie. Che, detta così, assomiglia più a un incantesimo di magia nera, che a una cura.

La cosa più curiosa però è che nell’articolo della depressione non c’è traccia: si parla genericamente di malessere psicologico, superato grazie a cibi usati come medicine. Innanzitutto, mi chiedo se la giornalista di Natural Style – che non è una novellina, tutt’altro: scrive per il mensile green da dieci anni – conosca la differenza tra malessere psicologico e depressione o se almeno le sia venuto lo scrupolo di non confondere le due cose. Un periodo della vita difficile, con lo stress e la tristezza che ne possono derivare, non è uguale a una crisi depressiva e se per il primo può essere che bastino una corsa all’aria aperta e una spremuta d’arancia, per la seconda no. Poi, c’è anche da domandarsi perché un tema interessante come quello dell’importanza di una corretta alimentazione, oggetto di approfonditi studi e ricerche, debba essere semplificato in una bieca caricatura. State male, malissimo? Disintossicatevi. E il significato della massima filosofica di Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia”, diventa un ridicolo “ciò che mangi ti guarisce da qualsiasi cosa”.

Non solo. Come corollario, vengono dispensati consigli per una vita Natural Style: bere semi di pompelmo la mattina, olio d’oliva come condimento e come nutrimento per la pelle e latte di cocco per una botta d’energia e un tocco esotico alle ricette. Bene, benissimo. Ma cosa c’entra la depressione? E come, dove, quando Gwyneth Paltrow l’avrebbe superata con la magica dieta dell’eliminazione? Dunque il titolo è fuorivante o è il contenuto dell’articolo a essere una confusione di pratiche mediche prive di fondamento? E qual era di preciso l’obiettivo dell’autrice? Dispensare buoni e innocui consigli per far brillare lo sguardo e avere gambe snelle, o insegnare a non rivolgersi alle cure convenzionali? Temo di non aver capito.

Quello che ho capito è che la De Marsanich, spinta dal suo spirito green, si è scordata di distinguere tra passeggero malessere e seria patologia, tra il desiderio di avere un viso idratato e il dover affrontare malattie devastanti, per il corpo e per la psiche.

(BitVsBit) Artificiale o Naturale? Dal parafulmine agli OGM

È di tre settimane fa il decreto che vieta la coltivazione in Italia del mais geneticamente modificato Mon810. A proposito di questa decisione, il ministro dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo ha dichiarato che le nostre colture si basano “sulla biodiversità, sulla qualità e su questo dobbiamo continuare a puntare, senza avventure che anche dal punto di vista economico non ci vedrebbero competitivi”. Sulla stessa linea si sono schierati Coldiretti, la Confederazione italiana agricoltori e varie associazioni ambientaliste, tra cui la sempre presente Greenpeace, che ha spiegato: “gli OGM sono un rischio inutile e inaccettabile, non offrono vantaggi significativi a nessuno se non alle aziende che li brevettano”. Che si può tradurre, io credo, in un’affermazione di questo tipo: è molto più facile fare di tutta l’erba un fascio, invece di impegnarsi nel dirimere le questioni caso per caso, applicando con costanza una certa capacità di discernimento. Il fatto che poi 8 italiani su 10 siano favorevoli al ddl (fonte: Coldiretti) dimostra che in molti amano procedere come la Verdepace, senza preoccuparsi di documentarsi o di informarsi adeguatamente.

La controversia Ogm sì, Ogm no può essere ascritta alla più generica contrapposizione naturale vs artificiale, che miete vittime in tutti i campi: uno degli atteggiamenti che va per la maggiore è proprio quello di definire cattivo ciò che è artificiale e buono ciò che è naturale. Come se il naturale fosse intrinsecamente buono,  buono in sé e per sé, ovvero per il fatto stesso di essere reperibile in natura. Mentre l’artificiale, seguendo il filo del ragionamento, è intrinsecamente cattivo, una propaggine delle smanie dell’uomo, che cerca di plasmare a sua immagine e somiglianza il pianeta, noncurante delle altre specie vegetali e animali.

Mi sembra che basti poco per accorgersi che un approccio di questo tipo non porta lontano e che si invalida nel momento stesso in cui si afferma: è sufficiente spostare l’attenzione al piano della semantica infatti, per rendersi conto che non disponiamo nemmeno di una definizione di questi due poli contrapposti che sia condivisa. A rigor di logica, potremmo dire che qualsiasi cosa derivi dalla razza umana è artificiale e dunque cattiva: ma allora dovremmo etichettare come cattive non solo l’arte o l’architettura, che offuscano la bellezza di laghi e monti, ma anche la medicina, che si intromette nel corso delle cose. Poi, per tornare nel campo dell’agricoltura, dovremmo anche smetterla di mangiar carote arancioni, ché in realtà un tempo erano viola, e tutta la frutta e verdura d’importazione, che non avremmo mai trovato sulle nostre tavole se non ci avessimo messo lo zampino e che sono andate a modificare profondamente la biodiversità tipica del nostro territorio. Dovremmo esimerci dal produrre. dal fare, dal creare: ma se il produrre, il fare e il creare facessero parte della nostra natura umana, non finiremmo per cadere in un paradosso? 

Come ci insegnano gli amanti della biodinamica, del detersivo al limone e dei fiori di Bach, tutto il buono che c’è in questo mondo è già in natura. Di più: tutto ciò che si trova in natura non può che essere buono. Una considerazione del genere è confutabile troppo facilmente, quindi andrò oltre, facendo semplicemente notare che purtroppo siamo stati contenti quando Franklin inventò il parafulmine e ancora di più quando iniziammo a disporre di mezzi di navigazione, o della ruota, o di un pavimento sotto i piedi e di un tetto sopra la testa.

Sono osservazioni d’una banalità sconcertante, me ne rendo conto, ma proprio per questo chiariscono con immediatezza l’assurdità di un approccio che non ci arricchisce, anzi, impoverisce miseramente i termini di problemi altrimenti complessi e filosoficamente avvincenti. Assumendo che sia pressapoco impossibile determinare quale sia il confine tra artificiale e naturale e ammettendo che nella sopravvivenza della nostra specie la nostra capacità di intervenire sull’ambiente circostante è stata determinante. possiamo facilmente arrivare alla conclusione che posizioni come quella di Greenpeace o del governo attuale sono sterili, oltre che controproducenti.

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Sarebbe molto più interessante acquisire la capacità di dibattere su questioni controverse approfondendo le argomentazioni pro e contro, confrontandosi su tematiche che attraversano vari campi, da quello economico a quello dell’etica, procurandoci gli strumenti per comprendere.

Purtroppo invece ci viene più naturale decidere in base al nostro istinto o alla nostra sensibilità personale. scegliere una linea e tenere quella tutta la vita, senza mai metterci in discussione, dividerci in fazioni avverse chiamando dialogo quello che è un’evoluta riproduzione dell’arte della guerra (ma siccome hanno eserciti anche le formiche, possiamo dormire sonni tranquilli).

(NewBit) MuSe – la naturalezza della scienza

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Un’inaugurazione durata una giornata intera, dalle 18.00 di sabato 27 alle 18.00 di domenica 28: 24 ore no stop di esposizioni, conferenze e spettacoli. Trento ha presentato così il nuovo Museo delle Scienze, progettato da Renzo Piano: la struttura, che richiama le vette delle montagne circostanti, è stata progettata per essere calata nel territorio, rispettandone l’ecosistema. I materiali impiegati sono in gran parte a Km0 e gli impianti sfruttano il più possibile fonti di energia rinnovabili – in particolare, solare e geotermica.

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La natura è la vera protagonista di questo viaggio nel passato, nel presente e nel futuro della scienza: le ricostruzioni dei dinosauri e degli uomini preistorici mettono l’accento sulle nostre radici, mentre la sezione dedicata all’innovazione e il Fab-Lab (un fabrication laboratory dotato di stampanti 3D) ci lasciano intravedere ciò che sarà. Lo sguardo sul nostro tempo è garantito dalla presenza della ricerca all’interno del Museo: 800 mq di laboratori, in cui sarà possibile vedere gli scienziati al lavoro.

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Molte delle esposizioni sono dedicate all’ambiente e alla biodiversità: si può esplorare il bosco, con le specie viventi che lo caratterizzano, oppure avventurarsi tra i ghiacci; si può curiosare tra la geologia delle Dolomiti o scendere nel sottosuolo. Al piano terra, il Maxi Ooh! stupisce grandi e piccini, con giochi e attività sensoriali, che permettono di esplorare, provare, guardare e toccare, lasciandosi guidare dalla propria voglia di scoprire.

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La splendida serra tropicale chiude idealmente il percorso: una cascata e il verde della fitta vegetazione riposano la mente, mentre all’esterno l’acqua circonda la struttura in vetro.

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(MedBit) Chi è povero, muore?

Il 1° luglio è apparsa sul sito dell’Espresso online -suppongo anche altrove, ma magari altrove è stata trattata con toni meno sensazionalistici e accusatori- una notizia che ha fatto scalpore. Capeggia come sottotitolo: “Chi vuole curarsi deve pagare più di mille euro a settimana. È una violazione della Costituzione, ma il governo fa finta di niente”.

Detta così sembra che gli ospedali stiano buttando fuori i meno abbienti dalle corsie. Ehi tu, hai il diabete ma non hai 1000 euro? Fuori. Tu volevi un trapianto di cuore? Ma va là che al massimo puoi permetterti l’aspirina. Si specifica però che si tratta di malati oncologici. Ancora peggio! Vuoi vedere che per colpa della crisi facciamo morire nel dolore i malati di tumore?

Ma andiamo per ordine. La notizia sta nel fatto che il 27 maggio scorso l’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco) ha approvato la messa sul mercato di due farmaci chemioterapici, il pertuzumab (Roche) e l’afibercept (Sanofi-Aventis). Ovviamente quello che fa scandalo è che siano a carico del paziente. Orrore! Sacrilegio! Attacco al diritto di salute! La casta! Le lobby farmaceutiche! Perché il problema ulteriore è che tutto ciò è accaduto in ottemperanza a una norma del novembre 2012 dell’ex ministro Balduzzi. Addirittura il Ministero della Salute? Ci sarà sicuramente qualcosa dietro!

Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando per lo più di farmaci di seconda scelta, o farmaci che non guariscono salvano dal cancro, ma allungano la vita di qualche mese. Certamente qualche mese vale molto per un malato oncologico, ma c’è di più: si tratta di farmaci “nuovi” sul mercato, dove “nuovo” non vuol dire sicuramente migliore, o innovativo, o più efficace,  o peggio ancora rivoluzionario, semplicemente non ancora “prezzato”. Finora secondo le direttive tutti i farmaci da somministrare in regime ospedaliero (come appunto i chemioterapici) prima di essere utilizzati dovevano avere l’approvazione specifica dell’ AIFA, che mette in campo una trattativa con le aziende per stabilire il prezzo di mercato del nuovo farmaco.  Durante questo periodo, come si può immaginare, il farmaco non risulta sul mercato italiano. Però esiste. E all’estero viene venduto. Quindi era prassi di molti ingegnarsi per acquistarlo rocambolescamente fuori Italia e usarlo prima dell’immissione sul nostro mercato.

Cosa è cambiato dunque, cosa ci dice realmente la notizia?Molto semplice. Che chi già‘pagava per comprare questi farmaci dall’estero perché in Italia erano illegali ora li paga comunque, ma nella farmacia sotto casa. La necessità di un periodo di trattativa al riguardo mi sembra talmente scontata da non essere messa in discussione. Il fatto di dover acquistare (sempre di propria tasca!) all’estero era una complicazione, che con questo decreto sembra essere bypassata. Insomma a me pare piuttosto un piccolo, minuscolo caso in cui la burocrazia veniva snellita, aggirata a favore del cittadino.  E invece si grida allo scandalo.

Quindi si tratta di tutto fumo e niente arrosto? Nì. Una cosa sfugge spesso alla considerazione della popolazione generale. I farmaci costano. Hanno un valore intrinseco che deriva dalla ricerca, dall’impegno di chi ha sperimentato il preparato nei vari step necessari all’approvazione, dalla costruzione e dal mantenimento dei laboratori altamente specializzati necessaria a produrla (e sì, anche dallo stipendio del poveraccio che ha passato 5 anni chiuso in un laboratorio per perfezionare la molecola, perché qui nessuno vive gratis, il lavoro onesto va pagato). E allora, chi paga? Perché qui il problema non è ammettere prima o dopo in Italia un farmaco, il problema sta nella nostra mentalità del “tutto, subito e gratis”. Noi siamo mentalmente abituati male, o meglio troppo bene,  a pensare che lo Stato anzi l’SSN (Sistema Sanitario Nazionale) ci fornisca le migliori cure, nel minor tempo e sempre (quasi) gratis. Eppure magari facciamo due cicli di antibiotici a 10.000 euro ciascuno. Oppure subiamo un’operazione di sostituzione di una valvola cardiaca, il cui mero corrispondente artificiale (senza esami pre-operatori, ricovero, retribuzione del primo, secondo, terzo operatore, del ferrista, degli infermieri, degli OSS…) è di circa 5000 euro. E non paghiamo noi. Beh questo è ormai diventato non un diritto ma un privilegio. Noi siamo fortunati.

Viviamo in un sistema sanitario che ha scelto di essere basato sull’universalità e gratuità. Ma questo ha comunque un metaforico costo.  Perché se vuoi che un lavoro sia fatto bene o spendi tanto o devi essere disposto ad aspettare. E se vuoi spendere poco devi accettare di avere il lavoro fatto meno bene o in più tempo. Solo due su tre. In sanità (come credo in ogni ambito) bisogna operare delle scelte. Non si può avere tutto. Sarebbe giusto? Più che altro sarebbe stupendo. La Sanità a costo zero. Il sogno di ogni igienista e direttore sanitario. Però non si può. Quindi riassumendo: per poter garantire a tutti ogni prestazione urgente, salvavita, necessaria al mantenimento della salute, bisogna gestire al meglio i fondi, da che ne deriva, che qualcuno uscirà scontento, e si sentirà tradito dal suo Stato, vittima di un’ingiustizia. E avrà anche ragione, ma sarà grazie al suo scontento che il sistema avrà funzionato per altri mille.

Perché il lavoro di chi programma, gestisce e organizza i vari aspetti della sanità pubblica non è fare tutti contenti, ma raggiungere il migliore compromesso possibile. Ancora (molto) lontano dalla perfezione. Ma ci stiamo lavorando. Intanto accedere a farmaci prima disponibili solo all’estero, anche se a pagamento, a me sembra un buon inizio.

Si ringrazia lo staff di MedBunker http://www.facebook.com/pages/MedBunker/246240278737917?fref=ts per le informazioni precise e circostanziate a cui ho ampiamente attinto.

(BioBit) Steiner e la vescica di cervo, ovvero che cos’è la biodinamica

Avrete sicuramente letto che quest’anno a Vinitaly la grande novità sono i vini biodinamici: l’hanno scritto tutte le principali testate giornalistiche nazionali, per lo più utilizzando la dicitura “prodotti naturali, biologici e biodinamici”. Dunque è arrivato il momento di fare chiarezza su che cosa sia l’agricoltura biodinamica e di parlare soprattutto del marchio che ne garantisce la qualità, la Demeter.

La Demeter è un’associazione internazionale creata nel 1997 e composta dalle varie associazioni su scala nazionale, tra cui quella italiana, che ha sede a Parma. Quando un prodotto vuole essere riconosciuto come biodinamico, deve rivolgersi alla Demeter, che gli concederà il marchio, solo se in fase di coltivazione sono stati rispettati tutti i requisiti necessari.

Ma di quali requisiti si tratta?

Sul sito ufficiale, sono illustrati, alla voce Biodinamica del menù laterale, le tecniche e i precetti che un bravo agricoltore biodinamico dovrebbe seguire. Innanzitutto, sia chiaro che la biodinamica non è solo un modo di trattare la terra, ma è una vera e propria antroposofia, fondata negli anni ’20 del secolo scorso dal poliedricoRudolf Steiner, filosofo e pedagogista austriaco.

Per dedicarsi alla biodinamica è necessario un ampio grado di introspezione, anche perché i cibi prodotti con questo metodo non sono solo nutrimento per il corpo, ma anche per lo spirito. Fortunatamente, sempre più persone decidono di acquistare il marchio Demeterclienti che hanno un orientamento organico ed olistico (testuali parole). Vabbè.

Dunque insomma, posto che io sia organica e olistica e che abbia raggiunto il giusto livello di introspezione, cosa devo fare per ottenere una carota biodinamica?

First of all, devo considerare che io e il mio campo siamo immersi in forze cosmiche: i pianeti più vicini esercitano delle influenze attraverso l’atmosfera e l’acqua, l’humus e il calcio, mentre quelli più lontani tramite il quarzo e il silice, esprimendosi in ultimo nei colori di fiori e frutti.

Ma come faccio ad essere certa che sia davvero così? Facile, lo ha detto Steiner:l’utilizzo dei preparati cornoletame e cornosilice è un’estensione pratica di queste idee. La loro azione può essere paragonata a quella dell’omeopatia, che agisce sui processi metabolici sia delle piante che del terreno mediante energie trasportate da materiali potenziati. I preparati di Rudolf Steiner non si basano su una saggezza agricola tradizionale, sono solo il frutto dalle sue indicazioni. Wolfgang Schaumanndisse: Steiner aveva il dono di vedere dentro al mondo soprasensibile; era consapevole delle realtà al di fuori del regno delle percezioni sensoriali umane e tentava di trasmettere queste realtà ai suoi ascoltatori utilizzando paragoni verbali e pittorici.

Bene. Appurato che posso fidarmi, vado avanti. Indispensabili sono i preparati a spruzzo, il cornoletame e il cornosilice, diluiti in soluzioni omeopatiche: attenzione a “dinamizzare” nel modo corretto, se non mescolate bene creando due vortici in due sensi diversi, il preparato potrebbe non essere in grado di trasmettere energia e informazioni.

Ci sono poi anche i preparati con le piante officinali, che migliorano la fertilità del compost: dovete però disporre di una vescica di cervo maschio, di un intestino di vacca femmina, di un cranio di un animale domestico… non è specificato se possono essere morti di morte naturale o se vanno uccisi. Mi permetto di segnalare chequest’indicazione omessa sarebbe fondamentale per i vegetariani che volessero seguire Steiner.

Un ricettario vero e proprio non esiste, ci informa la Demeter, ma questo non significa che ci siano segreti: chiunque può attingere al vademecum, non si tratta di pratiche magiche, ecco. Anche se… anche se ci sono quelle due o tre cose che potrebbero far pensare male.

Del tipo, sul sito dell’Associazione per l’agricoltura biodinamica, scopriamo che da sempre si dividono i segni zodiacali in quattro gruppi, ognuno dei quali appartenenti a un elemento: Ariete – Leone – Sagittario appartengono al fuoco; Toro – Vergine – Capricorno appartengono alla terra; Gemelli – Bilancia – Acquario appartengono all’aria; Cancro – Scorpione – Pesci appartengono all’acqua.
Così anche le quattro parti della pianta si possono riferire agli elementi:
Radice – Terra; Foglia – Acqua; Fiore – Aria; Frutto – Fuoco.

E mentre viene da chiedersi in base a che cosa, subito un altro sito ci rincuora ricordandoci che la biodinamica non è puro pensiero, ma è una metodologia agricola fondata su solide conoscenze scientifiche, anziché su accidentali constatazioni tecnologiche, su cui sono stati pubblicati numerosi studi che ne confermano l’attendibilità.

Buona lettura (tanto sono solo tre, fate alla svelta).

(QuotBit) La depressione, secondo Edoardo Boncinelli

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Facebook spopola di pagine assurde, che possono spaziare dalla fede al cibo, dallo sport al porno, dalla passione per lo shopping a quella per il bricolage. Com’è naturale che sia,  sono nate anche diverse pagine dedicate a salute e benessere: di queste, molte parlano di psichiatria e non è raro che si trasformino, più o meno volontariamente, in catalizzatori di commenti sprezzanti e giudizi miopi, lasciati da utenti sicuri che questa branca della medicina sia una vera e propria truffa. Il problema è che si tratta di pagine che godono di una certa visibilità, in cui vengono postati articoli, spacciati per ‘la vera informazione’ o per ‘informazione senza filtri’, in cui si spiega come le malattie psichiatriche siano un’invenzione di chi vuole guadagnare con la somministrazione di psicofarmaci.

Le teorie su complotti, ormai si sa -e lo si sa soprattutto grazie alla risonanza data dai Grillini a questo genere di cultura underground-, sono delle più disparate: si va dalle scie chimiche agli extra-terrestri tra noi, rapiti azzittiti e nascosti. In campo medico, poi,  si assiste a un vero e proprio dispiegamento della forza dell’immaginazione: basti pensare a tutto quello che è stato e viene ancora detto sui vaccini, o addirittura sul virus dell’Aids.

Tutte le questioni che ruotano attorno alla mente e alla malattia mentale sono di particolare interesse, perché toccano corde verso cui tutti siamo, più o meno ragionevolmente, abbastanza sensibili: probabile che il motivo stia nel fatto che con la nostra mente noi ci identifichiamo, prima ancora che con il nostro corpo (e prima ancora di renderci conto che la mente altro non è che una parte del nostro corpo), che siamo ben consapevoli dell’importanza che riveste nel nostro quotidiano, dal lavoro alle relazioni, e che quando parliamo di  mente parliamo, in fin dei conti, di natura umana -per alcuni, addirittura di anima.

Dunque già solo per questi ragioni, è facile realizzare che i complotti teorizzati attorno alle patologie psichiche e alle relative cure abbiano un forte appeal, certo più dello sbarco alieno, che tutto sommato basta ci lascino stare e poi che ce ne importa.

Ma c’è di più: chi inneggia a una psichiatria pericolosa e a psichiatri pericolosi, lo fa chiamando in causa degli aspetti che sono stati o sono ancora effettivamente problematici e discutibili, come per esempio le pratiche barbare utilizzate un tempo nei manicomi, l’utilizzo dell’elettro-shock,  la somministrazione di psicofarmaci a  bambini, la necessità o meno di accompagnare l’assunzione di un farmaco con un percorso di analisi e così via. Ma il modo -sì, il problema è sempre e soltanto quello, il modo, il metodo, l’atteggiamento, il procedere razionale, la disposizione dialettica e la capacità di ragionamento logico- è del tutto fuorviante. Non solo: alcune dichiarazioni, se lette da persone che davvero hanno a che fare con la malattia mentale, risultano veramente fastidiose, offensive e imbarazzanti, oltre ad essere vuote di contenuti, di evidenze a sostegno di quanto “teorizzato” o di una qualsiasi impalcatura poggiante su basi scientifiche.

Ecco solo alcuni esempi, tratti dalla pagina No alla psichiatria, no agli psicofarmaci, che conta 6.422 likes:

” Gli psichiatri fanno molto male a somministrare quelle schifose droghe chimiche piene di effetti collaterali ” commento di un utente

” Gli psichiatri uccidono con i loro veleni credono o inventano che le malattie psicologiche derivano dalla mancanza di serotonina nel cervello maledetti cani ” commento di un utente

” Morgan ricoverato per abuso di farmaci. Scommettiamo che si tratta di psicofarmaci? D’altronde nel 2010 disse <Uso la cocaina come antidepressivo. Gli psichiatri mi hanno sempre prescritto medicine potenti, che mi facevano star male. Avercene invece di antidepressivi come la cocaina> ” post dell’amministratore

“Forse non sai che la maggior parte dei cosiddetti fuori di testa, sono così non x causa della presunta malattia, ma è l’effetto dei farmaci che li rende così. Tu non hai idea di cosa queste sostanze possono fare sull’essere umano e come possono trasformarlo. Sta scritto anche sui bugiardini stessi, se non credi a noi. Leggili.” commento dell’amministratore

Purtroppo, non si può neanche dire che si tratta di un ridicolo e piccolo gruppo di esaltati, a cui nessuno dà ascolto, se qualche tempo fa Ambra Angiolini dichiarava al settimanale Sette di aver curato la depressione con una dieta sana e equilibrata, non con gli psicofarmaci come era stata costretta a fare sua madre. In  Italia non esiste una cultura, al di fuori dei circuiti specializzati, su come funzioni il nostro cervello, su cosa siano i neuroni, le sinapsi o su quali meccanismi biologici stiano alla base delle nostre emozioni.

Esiste invece un atteggiamento -forse un retaggio cattolico, oserei dire- secondo il quale ciò che noi proviamo è sempre e soltanto sotto il nostro controllo, è qualcosa di spirituale, di sacro e immacolato, che non si tocca, nemmeno per curarlo. Eppure sono così chiare le parole di uno scienziato come Edoardo Boncinelli, che basta una sola, rapida lettura per comprendere che la malattia mentale esiste, come esistono il mal di stomaco e l’uveite, che è profondamente invalidante e che per fortuna può e deve essere curata, in modo appropriato e adeguato (discutiamo ad libitum su cosa sia appropriato o adeguato, ma non certo nei termini proposti dai paladini di cui sopra):

” Di paura allo stato puro si può parlare per certi disturbi psichici, gravi e meno gravi. In questi casi vien meno la natura intenzionale della paura, che è appunto quella di paura di qualcosa, e si toccano dolorosamente le radici biologiche della paura stessa. Così come in certe forme depressive non si può parlare di disperazione per qualcosa ma di disperazione allo stato puro, di disperazione come condizione essenziale, una condizione alla quale corrispondono un vissuto e uno stato d’animo così totalizzanti e devastanti da portare chi li prova a contemplare l’idea della morte come una prospettiva liberatoria. Non c’è niente di più disperante della disperazione che di nutre di sé stessa, come non c’è niente di più terrificante di una paura senza oggetto. Paura e disperazione sono i neri demoni della malattia mentale. La condizione di chi ne soffre può essere compresa solo se si tiene conto del fatto che questi individui si trovano in contatto con le radici stesse di quelle sensazioni. Stanno sperimentando cioè la funesta potenza delle strutture biologiche e mentali che hanno introdotto la paura e la disperazione in un un mondo che ne ignorava e tutt’ora per lo più ne ignora l’esistenza.” (Da Il cervello, la mente e l’anima, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1999).

Forse varrebbe davvero la pena di prendere coscienza di cosa stiamo parlando quando parliamo di cervello, di mente e di malattia psichica e capire che se Ambra si è curata con due foglie di insalata e una barretta di cioccolato, beh, è probabile non si trattasse esattamente di depressione.

 

 

(ReBit) “Mascherina ti conosco”: tutto merito dei neuroni.

I neuroni sono, almeno a mio modo di vedere, l’oggetto più affascinante della scienza moderna. A partire dalla struttura, che li fa assomigliare a piccole stelle che si stirano le braccia o a ragnetti intenti a tessere la tela. Le loro lunghe e sottili propaggini servono invece a trasmettere e ricevere gli impulsi nervosi: l’assone è un unico, lungo ramo che porta i segnali elettrici dal corpo della cellula (il soma)  verso un altro neurone. I dendriti invece sono quei rami che ricevono il segnale dall’esterno e lo conducono verso l’interno. Fondamentali in questo scambio di informazioni sono le sinapsi, che, situate sulle terminazioni di assoni e dendriti, consentono la trasmissione elettrica, tramite il rilascio di neurotrasmettitori. Grazie a questo -apparentemente semplice- meccanismo, noi siamo in grado di apprendere, muoverci, reagire agli stimoli esterni, comprendere ciò che ci comunicano gli altri (una delle linee di ricerca è il ruolo che i neuroni specchio potrebbero avere nello sviluppo dell’autismo), imparare, interagire con il mondo esterno e, non ultimo d’importanza, ricordare.

Trasmissione dell'impulso elettrico da un neurone all'altro.

Trasmissione dell’impulso elettrico da un neurone all’altro.

Un articolo, pubblicato su “Le Scienze” del mese di Aprile, fa il punto sullo studio dei meccanismi della memoria. Ad oggi, sono due le teorie di riferimento: o ogni ricordo ha sede in un singolo neurone, o un’ampia rete di neuroni codifica uno stesso ricordo. Quest’ultima ipotesi è quella attualmente più accreditata: sostenuta a partire dal 1940 dal premio Nobel Charles Sherrington, mostra come l’attività di una singola cellula nervosa sia sostanzialmente priva di senso e acquisti significato solo all’interno della collaborazione con gruppi di altre cellule. Quello che non è ancora chiaro è se si stia parlando di milioni di neuroni distribuiti in zone diverse o di piccoli insiemi situati in una regione specifica. Gli studi degli scienziati Rodrigo Quian Quiroga, Itzhak Fried e Christof Koch propendono per quest’alternativa, che, sottoposta a prove su modelli, appare ben più verosimile, soprattutto per la sua economicità e efficacia nella costruzione di un ricordo e di correlazioni tra più ricordi (tra un luogo e una persona, per esempio). Se, infatti, milioni di neuroni codificassero ogni caratteristica infinitesimale di persone o luoghi e fosse distribuiti in aree distanti tra loro nel lobo temporale mediano, al momento di creare associazioni tra l’amico Paolo e il bar in cui lo abbiamo incontrato l’ultima volta, ci troveremmo davanti a un processo molto lento e dispersivo. Molto più semplice sembra immaginare di avere davanti un numero ridotto di neuroni, che codificano gli aspetti essenziali del nostro amico e del locale e che vanno a formare, organizzati in ristretti gruppi sparsi, il concetto di “amico Paolo” o di “Bar Sport”. All’occorrenza, solo alcuni neuroni di ogni gruppo si attiveranno, creando il collegamento. 

Al di là dei complicati aspetti tecnici, ciò che è più intrigante è che i nostri neuroni sarebbero in grado di ricondurre un’immagine o una qualsivoglia rappresentazione al concetto di riferimento (all’idea in sé, direbbe Platone). Questo significa che, vedendo il nostro amico Paolo, siamo in grado di riconoscerlo nonostante a volte lo vediamo in piedi, altre seduto, a volte coperto da sciarpa cuffia e guanti, altre in costume, a volte in un ristorante affollato, altre durante una cena intima. La nostra mente scarica tutte le informazioni contingenti e trattiene quelle essenziali, ossia tralascia le qualità secondarie e mette a fuoco quelle primarie, intrinseche all’oggetto.

Insomma, se Bersani può dire di Berlusconi “Mascherina ti conosco” è proprio grazie al modo in cui lavorano le sue cellule nervose, che hanno incamerato il concetto “Berlusconi” e gli eventi a lui relativi, al di là di ogni contesto o apparenza, riconoscendolo così in tutte le occorrenze -anche in quelle mascherate. 

Storia di un Punto

Storia di un Punto che mangiò l’universo

ilpunto

C’era una volta un Punto, che si stancò d’essere così piccolo.

     Pensò dunque di mangiarsi lo spazio attorno a sé,

per diventare grande.

Adesso non era più un punto, dicevano. Tutti lo guardavano pieni di meraviglia.

No, non era più un punto.

Era un cerchio.

No no, una sfera.

No no, la chioma di un albero.

No anzi, il mondo.

Il punto orgoglioso si grattava la pancia e continuava a mangiare.

Si mangiava tutto, tetti, palazzi, strade. Gatti, zebre e giraffe. I semafori li usava come stuzzicadenti.

Oceani e mari se li beveva in un sorso. Le nuvole, per digerire, come fossero citrosodina.

Quando fu il momento dell’atmosfera, ci ficcò dentro la bocca come nello zucchero filato.

Mandò giù interi satelliti e navicelle spaziali, senza pensarci.

Poi mangiò le stelle.

E le comete, che gli frizzavano in bocca.

Mangiò la gravità e la luna.

Si mangiò la luce.

Stava per sgranocchiare l’ultimo raggio, quando si accorse di aver mangiato un po’ troppo,

e proprio in quell’istante, scoppiò.

Mentre si sparpagliava in tutto l’universo –che per qualche istante soltanto non fu più universo,

ma semplicemente vuoto– pensò che esplodere era grande, era bello.

E che non era per davvero la fine,

ma soltanto un altro inizio.